domenica 19 settembre 2010

7. Casa

La Casa è una specie di cattedrale nel deserto, nel senso che credo che sia il più grande edificio privato interamente in muratura nel raggio di qualche decina di chilometri. All'interno, attorno a un bel chiostro con in mezzo un campo da badminton, al piano di sotto ci sono gli uffici e le stanze dei due Padri, due aule studio-mensa più la sala da pranzo dei grandi e una grande sala per ricevimenti e eventi vari. 
Al piano di sopra i dormitori dei ragazzi della Shelter Home e degli studenti del college che dormono qui, l'aula di sartoria, gli appartamenti dei tre Fratelli e altre stanze varie tra cui la mia.Fuori, qualche ettaro di terra sabbiosa cinto da vegetazione tropicale, 3 campi da pallavolo, due porte da calcio, un parco giochi-aia per oche, papere e conigli e pure trave e parallele. 






La settimana scorsa c'è stata festa mercoledì (cristiana, fine delle celebrazioni per la Madonna di Vellankanni), venerdì (musulmana, fine del Ramadan), sabato (indù, boh), quindi non ho avuto esperienza di una vera quotidianità, molti dei ragazzi sono tornati ai loro villaggi per le feste. 


Da questa settimana è ricominciato il tran tran: scuola 9.30-16.30, poi si torna a casa, calcio e pallavolo fino alle 18, studio, cena, preghiere e a letto.
In tutto questo, tra una partita 20 contro 20 a piedi nudi in un campo da calcio di sabbia e gare di trazioni alla trave dopo scuola, le mie mattine passano tra lezioni-ripetizioni ai non formal students - che non hanno superato gli esami e vengono a studiare qui - visite ai villaggi e ricami vari.

A proposito, la cucina. Occupa tre stanzoni (tra Shelter Home Boys, studenti del college e personale vario qua dentro vivono un centinaio di persone) e qualcosa bolle sempre in pentola: il concetto di cibo crudo, frutta esclusa, non esiste. Ogni pasto è fatto di cereali e/o derivati più intingoli sugosi e verdure, qualche volta c'è pollo o pesce. Il riso la fa da padrone, insieme a delle deliziose crêpes di farina di riso, i dosai. Ci sono poi delle altre crêpes di grano, i chappati (che ieri ho cucinato), che si mangiano con un curry ocra con i ceci. Il massimo si raggiunge con gli idli, una specie di panini di farina di riso lessati nell'acqua, davvero ottimi sia col dolce che col salato. 
L'unica cosa che davvero non mi piace sono i piccoli frutti tipo giuggiole che i ragazzi mi offrono ogni mattina dagli alberi, legano la bocca peggio di una cassa di cachi in settembre. Tutto si mangia con le mani, anzi con la destra (la sinistra serve per il bidet) e la cosa ha un senso, d'altronde più un miliardo di persone mangia così, e non solo perché le posate costano. Con le mani puoi prendere il riso bianco e intingerlo nel sugo piccante, con la forchetta è impossibile, con il cucchiaio benvenuto imodium. All'inizio è strano, fai fatica, ti sporchi le mani e il viso in maniera invereconda, ma quando capisci come fare viene quasi naturale. 

Ormai sono "nomade" da più di tre anni, faccio fatica a dare un senso al concetto di casa, anzi molto spesso ho provato il senso di sradicamento, soprattutto nell'ultimo periodo, un trasloco dietro l'altro. Dopo due settimane qui mi sento a casa, ho preso le misure, lo sento mio come posto perché lo vivo, non lo uso. 

Allo stesso modo, chissà come deve essere strano per questi ragazzi vivere in una casa con la famiglia due villaggi più in là, spesso vedo la nostalgia nei loro occhi, o forse è semplicemente dolore per un passato o un presente che questa quotidianità di scuola giochi e studio vuole sostituire, e fortunatamente lo fa bene. Non mi piace aprire a Natale la cassetta della posta e trovare le cartoline con il bambino africano denutrito sbattuto in copertina. Leggere la prima sera nello sguardo di uno di loro la tristezza, quella vera, mi ha fatto venire i brividi - fisicamente.

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